Virus, è arrivato il momento dell’audacia
di ALESSANDRO BARICCO
Devo averla
già raccontata, ma è il momento di ripeterla. Viene da un bel romanzo svedese.
C’è la regina che decide di imparare ad andare a cavallo. Monta in sella. Poi
chiede sprezzante al maestro d’equitazione se ci sono delle regole. Ed ecco
cosa risponde lui: “Prima regola, prudenza. Seconda, audacia”.
Bene, direi che con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Possiamo
passare all’audacia. Dobbiamo passare all’audacia.
Se sei un medico, non so cosa possa voler dire essere audaci in questo momento,
quindi non mi permetto di dare suggerimenti. Però so esattamente cosa
significhi essere audaci, in questo momento, per gli intellettuali: mettere da
parte la tristezza, e pensare: cioè capire, leggere il caos, inventariare i
mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità
schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di
dare a tutti qualche certezza. Al lavoro dunque, ognuno nella misura delle sue
possibilità e del suo talento. Io in questo momento non sono particolarmente in
forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio
mestiere.
1. Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui
comanderà quello che alle elementari stava all’ultimo banco, non capiva una
fava però era grosso e ci godeva a menarti. Sveglia, quelli sono romanzi.
Torniamo in noi. E noi – noi umani – siamo una specie di agghiacciante
pazienza, intelligenza e forza: siamo gente che è riuscita a convertire il
creato nel proprio parco di divertimenti grazie a una delle operazioni più
violente e ciniche che si potessero immaginare; non solo, ne siamo anche
consapevoli: abbiamo dato un nome al bottino di una simile razzia, antropocene,
e siamo arrivati ad essere talmente sicuri di noi stessi da iniziare a pensare
recentemente di restituire a parte del creato una sua libertà. Siamo quelli lì.
Da sempre combattiamo con i virus. Spesso ci hanno messo in ginocchio. Si dà il
caso però che in quella posizione scomoda diventiamo ancora più pazienti,
cocciuti e furbi.
2. Stiamo facendo pace col Game, con la civiltà digitale: l’abbiamo
fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei.
La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e
gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e
non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era
che gli strumenti digitali diventassero un’estensione quasi biologica dei
nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere
umani: l’utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo
un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o
semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà
amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento.
3. Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi
giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire
che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo
“ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali”, quello che
facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne
accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto
dell’intelligenza. Non dimenticate la lezione, per favore. Anzi, aggiungetene
un’altra: tutto questo ci sta insegnando che più lasceremo srotolare la civiltà
digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico
tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche,
imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze,
temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti
per righe e righe. L’umanesimo diventerà la nostra prassi quotidiana e l’unica
vera ricchezza: non sarà una disciplina di studi, sarà uno spazio del fare che
non ci lasceremo mai rubare. Guardate la furia con cui lo desideriamo ora che
un virus l’ha preso in ostaggio, e vi passerà ogni dubbio.
4. Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava
facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la
gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di
sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni
date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe
di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità
anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini. Una classe dirigente
che non sarebbe mai riuscita a fare una riforma della scuola è riuscita a
chiudere in casa un intero Paese. Cosa diavolo è successo? La paura, si dirà: e
va bene. Ma non è solo quello. C’è qualcosa di più, qualcosa che ci aiuta a
capirci meglio: nonostante le apparenze, noi crediamo nell’intelligenza e nella
competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di
cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più
lunga di noi. La nostra rivolta contro le élites è temporaneamente sospesa, ma
questo ci può aiutare a capirla meglio: noi crediamo nell’intelligenza, ma non
più in quella dei padri; vogliamo la competenza ma non quella novecentesca;
abbiamo bisogno di qualcuno che decida per noi, ma ci siamo immaginati che non
venga da una casta imbambolata da se stessa, stanca e incapace di rigenerarsi.
Riassumo. Volevamo una nuova classe dirigente, continuiamo a volerla: possiamo
aspettare, adesso non è il momento di fare casino. Ma ricominceremo a volerla
il giorno stesso in cui questa emergenza si ricomporrà.
5. È probabile che l’emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale
storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza
planetaria generata dall’epoca del Game, della rivoluzione digitale, e
l’ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un’élite e da un’intelligenza
di tipo novecentesco. Lo vedete il crinale? La vedete la contraddizione? Capite
perché in questo momento capiamo poco, fatichiamo molto, ci smarriamo
facilmente? Ci hanno sfidato a un videogame, e noi abbiamo mandato a combattere
degli scacchisti. Siamo esattamente in bilico tra un mondo e l’altro. È una posizione
scomodissima. Dovete rendervi conto che anche solo senza smartphone, l’ottanta
per cento di quello che vi vedete accadere attorno non sarebbe successo (flusso
di informazioni, costruzione di storytelling, maree di paura che vanno e
vengono, sopravvivenza in situazione di lockdown quasi totale, velocità delle
decisioni….): e tuttavia la gestione di tutto questo è in mano,
inevitabilmente, a una razionalità novecentesca. Faccio un caso pratico, così
ci capiamo. Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo
una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L’intelligenza del Game è
diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e
complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di
tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei
medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un’emergenza medica: gli
metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno
psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve.
Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare
metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente,
invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore
possibile, un’élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la
tecnologia digitale ma non la razionalità digitale. Non possiamo certo
fargliene una colpa. Ma questo è il momento di capire che se molto di quello
che vi circonda stamattina vi sembra assurdo, una delle ragioni è questa.
Grandi Maestri di scacchi che giocano a Fortnite (vinceranno, ma capite
che lo stile di gioco alle volte vi sembrerà piuttosto surreale).
6. Rimanete a casa, perdìo. Lo devo ripetere? Ok, lo ripeto.
7. Rimanete a casa, perdìo. Con tutto quel che c’è da leggere…
8. L’emergenza Covid 19 ha reso di un’evidenza solare un fenomeno che vagamente
intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l’agenda degli
umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare
in azione. Adesso il virus copre il nostro intero fabbisogno, e infatti chi è
più spaventato dagli immigrati o dal terrorismo o da Salvini o dagli effetti
dei videogame sui figli o dal glutine? Ma anche solo venti giorni fa ne avevamo
una gran bisogno, di quelle paure. Le coltivavamo come orchidee. In alcuni
momenti di carestia ci siamo fatti bastare un’emergenza meteo o una possibile
crisi di governo (capirai). Sappiamo ormai giocare solo coi pezzi neri: se
prima la paura non muove, noi non abbiamo strategia. Volevo invece ricordare –
e farlo proprio in questi giorni – che noi siamo vivi per realizzare delle
idee, costruire qualche paradiso, migliorare i nostri gesti, capire una cosa di
più al giorno, e completare, con un certo gusto magari, la creazione. Cosa
c’entra la paura? La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non
dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi.
9. (Questa è delicata. Astenersi perditempo). A nessuno sfugge, in questi
giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure
per affrontarlo. Ce la possono spiegare come vogliono, ma la sensazione resta:
una certa sproporzione. Non voglio infilarmi in quei paragoni che poi ti
portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o
dalla scivolosità della cera da pavimenti. Ma resta, ineliminabile, il dubbio
che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una
proporzione aurea tra l’entità del rischio e l’entità delle contromisure. In
parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell’intelligenza là, quella
novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua
adorazione per lo specialismo. Tuttavia la faccenda non si risolve lì. Se io
cerco di guardare dentro quella sproporzione che tanto ci infastidisce e
interroga, alla fine trovo qualcosa che adesso è dura da dire, ma come dicevo è
il momento dell’audacia, quindi bisogna dirla. C’è un’inerzia collettiva, dentro
a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti
contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire. È come se il diritto
alla salute (una fantastica conquista) si fosse irrigidito in un impossibile
diritto a una vita perenne, che d’altronde nessuno ci può assicurare. Ora, il
rapporto con la morte, e con la paura della morte, è una cosa innanzitutto
individuale, una faccenda che ognuno si gestisce da sé (io per esempio me la
cavo da schifo). Ma in seconda battuta la paura della morte è anche un
sentimento collettivo che le comunità degli umani sono da sempre attente a
edificare, limare, correggere, controllare. Per dire, la civiltà di mio nonno,
che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a
tenere alta una certa “capacità di morte”. Noi siamo una civiltà che
ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare
una collettiva abitudine a pensare la morte. Come comunità la combattiamo, ma
non la pensiamo. Invece, la meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio
riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con
saggezza; non come un’offesa indicibile ma come un movimento del nostro
respiro, una semplice inflessione del nostro andare, forse la cresta di un’onda
che siamo e che non smetteremo mai di essere. Non è che un individuo da solo,
possa arrivare spesso a certe leggerezza di sentire: ma una comunità sì, lo può
fare. Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni
dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità
non dovrebbe essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo
modo di morire è avere troppa paura di farlo?
10. Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca
registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo tutti, no,
ovviamente no, l’ho già detto. Ma in questo senso: ci stiamo accorgendo che
solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene. Il patto
tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene
ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una
solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per
quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi quando
supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si scelga, in
effetti, di non scendere più sotto quella velocità: l’emergenza come scenario
cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta
l’aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la
missione finale: salvare il pianeta. L’emergenza totale, cronica, lunghissima,
in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario
augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l’ha. E anche
abbastanza coerente con l’intelligenza del Game, che resta
un’intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e
intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che tutto sommato è stato
inventata da dei problem solver, non da dei poeti.
11. Ultima. Non me ne intendo, ma ci vuol poco a capire che tutto quello che
sta succedendo ci costerà un mucchio di soldi. Molto peggio della crisi
economica del 2009, a fiuto. Vorrei dire una cosa: sarà un’opportunità enorme,
storica. Se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e
riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel
momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente
attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è.
E’ un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda
qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra
credibilità, come un cancro. La difficoltà è che certe cose non si riformano,
non si ottengono con un graduale, farmaceutico miglioramento, non si migliorano
un tantino al giorno, a piccole dosi. Certe cose cambiano con un movimento di
torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose
cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in
rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi
la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti,
sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c’è una partita che ci aspetta
da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di
giocarla.