Per un recupero del senso e del valore del codice paterno nei servizi sociali
I servizi alla persona, in modo particolare quelli realizzati per i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie, sono in grande difficoltà di fronte ai padri con i quali si trovano a interagire.
E non è così infrequente che scelgano di farne a meno. L’articolo intende analizzare la presunta «crisi di paternità» nei servizi e declinare alcune piste di lavoro che possano favorire il coinvolgimento dei padri, individuandoli come co-protagonisti del cambiamento, nella convinzione che tale coinvolgimento sia necessario per produrre un aumento dell’efficacia degli interventi.
In questo ultimo anno mi è capitato in più di qualche occasione che, dopo la pubblicazione del mio libro Padre dove vai? (Armando, Roma 2011), operatori che lavorano all’interno di servizi sociali rivolti alle famiglie e ai loro figli, mi abbiano chiesto di condividere una riflessione sul tema della dimensione paterna e maschile all’interno dei loro servizi.
È come se fosse venuto il dubbio che la tanto conclamata «crisi della paternità» stia investendo anche il mondo dei servizi alla persona.
Serviamoci di due storie esemplari per capire se questo dubbio possa trasformarsi in un’ipotesi che richiede a sua volta un maggior approfondimento.
Nel primo esempio incontriamo un dialogo tra due padri da cui emerge il rapporto tra questi e il mondo della scuola:
– Ciao, Mario. Come stai?
– Bene, bene, Franco. Anzi no: sono piuttosto arrabbiato.
– Con chi?
– Col mondo e soprattutto con me stesso.
– Perché?
– Senti cosa mi è successo oggi. Sono andato a prendere a scuola Giovanni. Suona la campanella e le classi escono come al solito una alla volta. Arriva il turno di quella di Giovanni: lo vedo, esce e mi corre incontro. Ci abbracciamo forte, come al solito e mi dice che la maestra Carla mi deve parlare. La vedo sulla scala della scuola e mi avvicino. Mi saluta e mi dice: «Buongiorno signor Mario. Dica a sua moglie che devo parlarle di alcune cose che riguardano Giovanni». La ringrazio e me ne vado. Dopo un po’ mi rendo conto di quello che mi ha detto e ritorno indietro per farmi dire queste «cose», ma nel frattempo se n’è andata. Ma ti rendi conto, Franco? Io ero lì davanti a lei. Poteva riferire a me quello che aveva da dire su Giovanni; e invece no, lei vuole parlare con mia moglie. E io chi sono: la tata?! Io sono il papà di Giovanni!
– E tua moglie cosa ti ha detto?
– Lo vuoi sapere veramente? Ha detto che non mi devo preoccupare: domani va lei a parlare con la maestra e dopo mi riferisce. In poche parole: tutto normale1.
Questa seconda storia ci racconta invece di un momento di supervisione pedagogica con un’équipe di educatori di un servizio di educativa domiciliare:
Educatrice: Francesco ha grosse difficoltà a rispettare le regole. La mamma è presente da un punto di vista affettivo e riesce a prendersi cura in maniera adeguata dei bisogni del figlio, ma fa fatica a contenere il figlio, a dargli dei limiti, a farsi ascoltare. Nei colloqui con la mamma ho cercato di sostenerla da questo punto di vista, dandole anche alcune indicazioni pratiche. Per qualche giorno riesce a procedere secondo quanto concordato, ma poi ritorna tutto come prima.
Supervisore: E con il papà, come si comporta? Hai provato a coinvolgere il papà?
Educatrice: La mamma mi racconta che quando c’è il papà Francesco è più calmo. Io non ho potuto parlare con il papà perché fa il camionista e quando io vado a casa di questa famiglia non c’è mai.
Quattro rappresentazioni di padri
È innegabile che qualcosa sia accaduto alla paternità, in questi anni, tanto che possiamo parlare di una crisi sia dell’identità sociale sia dell’identità educativa dei padri2. Ma è accaduto anche qualcosa «attorno» alla paternità, ossia nella percezione che si ha dei padri.
I servizi alla persona, in modo particolare quelli realizzati per i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie, sono in grande difficoltà di fronte ai padri con i quali si trovano a interagire.
E non è così infrequente scegliere di farne a meno. Se possibile. È come se i padri avessero un modo di manifestarsi che crea disagio negli operatori. I racconti di questi ultimi parlano di padri su cui non si può contare o di cui non ci si può fidare.
Dall’ascolto di queste rappresentazioni di paternità, mi pare di avere individuato alcune tipologie di padri che ben descrivono questa difficoltà – se non impossibilità – a considerarli interlocutori credibili e utili.
L’assente È la figura per eccellenza; trasversale a tutte le classi sociali e alle problematiche.
Si può manifestare sotto forma di padre:
• assente per lavoro: i suoi orari di lavoro sono incompatibili con quelli dei servizi e quindi è impossibile incontrarlo;
• assente perché disinteressato: anche se fosse possibile incontrarlo, non ne varrebbe la pena perché non riconosce nei servizi degli interlocutori con i quali discutere dei propri figli e delle problematiche familiari;
• assente perché delegante, magari perché convinto che l’educazione dei figli sia un problema delle donne, oppure perché la moglie è una figura «tuttofare» che vuole avere il controllo totale di ciò che accade in famiglia, compresa l’educazione dei figli.
Non ha senso incontrarlo perché questo tipo di padre ha delegato l’intero compito genitoriale alla moglie. Anche se si decidesse di farlo, si rischia di perdere tempo: quella che prende le decisioni a casa è la moglie o la compagna.
L’aggressivo È temuto da tutti i servizi per la sua imprevedibilità umorale e morale. Anch’esso si può declinare in manifestazioni diverse:
• l’aggressivo perché rifiuta per principio chi cerca di intromettersi nelle «cose di famiglia» e solo lui sa che cosa è bene o male per i propri figli;
• l’aggressivo perché, attivamente o passivamente, tende a sabotare qualsiasi proposta che arrivi dal mondo esterno alla famiglia;
• l’aggressivo perché di natura collerico fino a essere violento. Non si sa mai come reagisce alle proposte e quindi tende a incutere paura negli operatori che temono per la propria incolumità.
L’ambiguo È il viscido, l’appiccicoso, l’orco più o meno travestito. Le sue declinazioni sono:
• il seduttivo: sa parlare, gesticolare e comunicare, ma non si è mai sicuri che quello che sta dicendo sia vero, sia veramente sentito o sia detto solo per compiacere l’interlocutore o per convincerlo del proprio punto di vista, fino a manipolarlo per spingerlo a schierarsi in suo favore contro la compagna o gli stessi figli;
• il playboy: ama la bella vita pur essendo uno squattrinato; ama le donne; al suo cospetto una operatrice sente di essere sottoposto a una radiografia completa. Il suo fine è in ogni caso provarci con le donne, poiché questo è il suo principale obiettivo di vita;
• il «maniaco» vero e proprio che è la maschera più pericolosa del playboy. Non ha limiti, né confini. Il centro della sua vita è il sesso. Trovarselo davanti significa sentirsi defraudati, sentire che i suoi occhi sono come delle mani che ti toccano in maniera inopportuna, violenta, sporca.
L’inaffidabile È il padre che all’apparenza sembra una figura su cui si può contare, ma in seguito è una delle più grandi delusioni degli operatori perché per vari motivi non riesce a portare a termine gli impegni che si è preso. Troviamo il padre:
• senza spina dorsale perché non ha «polso» con i figli e si lascia trascinare dalle loro richieste;
• disorganizzato perché non riesce a definire le priorità, non riesce a mettere ordine ai suoi impegni, a rispettare tempi e scadenze; dice sempre di sì ma poi c’è sempre qualche impedimento alla riuscita del compito;
• il bambinone perché è solo cresciuto fisicamente, ma non è maturato psicologicamente; a lui piace giocare con i figli, fare le attività speciali, divertenti, ma confonde continuamente i suoi bisogni con quelli dei figli;
• il permissivo perché, vuoi per debolezza, vuoi per convinzione, non esprime nessuna autorevolezza, non assumendosi nessun impegno per definire limiti, regole e direzione al comportamento dei figli e per trasmettere loro il proprio sapere, la propria esperienza e le competenze.
Coinvolgere i padri può aumentare l’efficacia degli interventi?
Non vi è dubbio che se queste tipologie di padri corrispondessero alla realtà, il compito dei servizi nel coinvolgere i padri nelle loro attività e proposte risulterebbe comprensibilmente difficile se non compromesso.
Ma chiediamoci: siamo in presenza di una corrispondenza tra rappresentazioni e realtà? Se anche la risposta fosse affermativa, cosa di cui dubitiamo profondamente, gli operatori hanno dei motivi sufficientemente validi per poter decidere di escludere i padri dalle loro proposte o per lasciare che i padri si autoescludano? Possono gli operatori dei servizi per i minori permettersi di accettare la mancata presenza dei padri e preferire l’esclusiva interlocuzione con le madri?
Siamo convinti che la risposta sia risolutamente negativa per tutti e tre i quesiti, ma soprattutto siamo persuasi che nello specifico campo del lavoro con le famiglie dei bambini e degli adolescenti sia non solo una grave mancanza, ma anche la causa del fallimento di molti progetti. Anzi si potrebbe affermare – all’opposto – che creare le condizioni per un coinvolgimento dei padri possa produrre un aumento dell’efficacia degli interventi. Ma per poterci aprire a questa prospettiva, dobbiamo chiederci perché questa situazione si è creata e consolidata nel tempo.
Il cambiamento di paradigma educativo
I motivi di questa situazione sono diversi e profondamente radicati nella cultura occidentale, specialmente nella cultura dei servizi sociali. Ne prendo in esame uno che considero il principale, da cui gli altri derivano, ossia il cambio di paradigma educativo.
In passato un’educazione condizionata dai padri. Nel corso della storia dell’umanità, l’educazione è sempre stata condizionata dai padri, da come i maschi hanno pensato l’educazione dei loro figli o, per essere più precisi, da come i maschi sono riusciti a tradurla in pratica.
Usando le parole di oggi, l’educazione paterna viene etichettata in due modi: come «adultistica», perché spinta all’autonomia, all’accelerazione dei processi di crescita e quindi irrispettosa delle fasi di sviluppo della crescita e dei bisogni collegati a ciascuna di esse; come «autoritaria», cioè impositiva del volere, delle idee e delle prospettive che i padri hanno scelto per i loro figli.
Dalla seconda metà del Novecento, tale approccio non è più andato bene e questo stile educativo è diventato deplorevole. Ciò è accaduto, a nostro avviso, quando le scoperte conseguenti alla rivoluzione conoscitiva dell’uomo, scandagliata filosoficamente nel Settecento (vedi, ad esempio, J.-J. Rousseau) e rafforzata scientificamente nel corso dell’Ottocento dagli studi della psicologia (ricordiamo, tra gli altri, le ricerche di S. Hall, la psicoanalisi di Freud, fino agli studi di J. Piaget) hanno iniziato a diffondersi a livello popolare nella cultura occidentale nel corso del xx secolo.
Quali sono le due idee principali che si sono radicate nel pensiero educativo comune?
Innanzitutto l’esistenza di un mondo interiore del bambino, specifico e diverso da quello dell’adulto. La vita infantile “non solo è assai più ricca e complessa di quanto si possa pensare sulla base dei ricordi relativi alla propria infanzia, o delle limitate osservazioni che è possibile compiere sui propri bambini, ma è anche notevolmente diversa dalla vita mentale dell’adulto”3.
Inoltre “le fasi dello sviluppo affettivo decisive per la formazione di quegli aspetti della personalità che possiamo dire «dinamici» (per contrapposizione a quelli intellettivi) sono, per Freud, relativi al periodo dell’infanzia”4.
“L’esistenza di un mondo proprio del bambino, di bisogni specifici da soddisfare, di compiti di sviluppo da attraversare in base a ciascuna fase evolutiva, hanno permesso il diffondersi e il consolidarsi di una seconda grande idea: le pratiche educative degli adulti nei confronti dei bambini sono determinanti nella loro crescita e conseguentemente esistono comportamenti educativi le cui conseguenze sono nefaste per lo sviluppo psicologico del bambino, tanto da poter parlare di «pedagogia nera”5.
Dal semplice forgiare un adulto alla realizzazione di un individuo felice Queste due idee producono una rivoluzione copernicana nella concezione dell’uomo e soprattutto nella visione dello sviluppo del bambino, provocando un profondo cambiamento del paradigma educativo del mondo occidentale. Per esemplificare, l’educazione passa:
• da processo di correzione e contenimento della imprevedibile natura umana a una totale difesa di tale natura e quindi dello sviluppo naturale del bambino;
• da un processo volto all’autonomizzazione precoce a un processo di crescita rispettoso e assecondante le diverse fasi di sviluppo;
• da processo volto all’inculturazione dei principi sociali e all’inserimento nel contesto sociale a un processo che promuove l’individuazione, la scoperta del proprio sé, delle proprie caratteristiche identitarie e di personalità.
Cambia, quindi, radicalmente la finalità dell’educazione: dal forgiare un adulto alla realizzazione di un individuo felice.
Acquistano centralità, di conseguenza, alcune dimensioni dell’atto educativo: la centralità della cura; della dimensione affettiva; della dimensione protettiva; dell’accoglienza e dell’accettazione incondizionata; dell’ascolto e dell’empatia; del rispetto della natura e della creazione delle condizioni favorevoli al suo sviluppo; del contenimento delle intrusioni adulte sullo sviluppo naturale; della soddisfazione dei bisogni; del presente; del «come» educare; del benessere.
Questi sono i pilastri della moderna educazione.
Ma questi sono anche i pilastri del codice materno e femminile dell’educazione. Ci troviamo di fronte a un’educazione che si è maternalizzata per contrapposizione all’educazione maschilista di un tempo.
Facendo questo non solo l’educazione si è squilibrata, ma sta correndo il rischio di sacrificare tutte le dimensioni del codice paterno che sono guardate con sospetto se non addirittura negate: la centralità dell’insegnamento; della funzione regolativa; del rischio e dell’avventura; delle regole e dell’esercizio dell’autorità; della parola e della distanza; della creazioni di situazioni di discontinuità; del contenimento della soddisfazione dei bisogni; del futuro; del «a che cosa» educare; della fatica e dell’impegno.
I servizi sociali hanno assecondato il cambiamento
È innegabile che i servizi sociali ed educativi per i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie non solo si siano costituiti e costruiti all’interno di questo tipo di atmosfera culturale, ma abbiano assecondato questa impostazione.
E questo è riconducibile a due fattori: il primo riguarda la loro mission, ossia la tutela e la promozione dei minori. Un paradigma affettivo e protettivo non può che calzare alla perfezione per raggiungere questo fine. Il secondo riguarda il fatto che la stragrande maggioranza del personale coinvolto in questi servizi è di genere femminile e quindi non può che essere portato ad assumere un tale orientamento.
Il codice materno inoltre si sposa molto bene con la scelta di considerare la costruzione di una relazione significativa, calda, importante, come principale strumento d’intervento. Questo a scapito invece di altri elementi maggiormente riconducibili al codice paterno, ossia l’attenzione alla creazione di contesti, alla programmazione, alla definizione di obiettivi, alla creazione di strumenti e dispositivi come facilitatori dell’apprendimento di competenze pratiche, relazionali e sociali.
Questo insieme di elementi ci porta a dire che, sì, c’è crisi di paternità anche all’interno dei servizi per i bambini e gli adolescenti, ma per uscirne è necessario «tirare dentro» di essi i padri, costringerli a partecipare, non accettare le maschere con le quali essi si presentano e considerarli co-protagonisti del cambiamento.
Che fare?
Vogliamo tentare di declinare alcune piste di lavoro che possano aiutare gli operatori dei diversi servizi sociali ed educativi che si occupano dei bambini, degli adolescenti e delle loro famiglie a coinvolgere i padri all’interno delle loro proposte e attività.
• Innanzitutto ci sembra necessario favorire la decostruzione delle rappresentazioni della paternità, lottando contro la forza degli stereotipi o contro le maschere che i padri hanno deciso di assumere o sono stati costretti ad assumere. Vi possono essere padri assenti, aggressivi, ambigui o inaffidabili ma è necessario andare oltre queste apparenze, ricordandosi sempre che, nonostante questo, sono i padri dei bambini e degli adolescenti, nonché i mariti o i compagni (o gli ex) delle madri di questi minori. Dobbiamo volerli con forza coinvolti e presenti nei progetti educativi, superando tutti gli ostacoli pratici e i sentimenti che essi possono suscitare in noi.
Ci troviamo di fronte a un’educazione che si è maternalizzata per contrapposizione all’educazione maschilista di un tempo.
• In secondo luogo abbiamo bisogno di decostruire l’attuale idea di educazione come maternage per recuperare il senso e il valore educativo profondo del codice paterno, così come abbiamo cercato di delinearlo dando spazio a questo diverso modo di sentire e di vedere il mondo e di agire in esso.
In fin dei conti “assistere ed educare sono prestazioni differenti, spesso incompatibili, e bisogna imparare a comprenderlo. In fondo è ovvio: una prestazione assistenziale si riduce a vigilare affinché all’assistito non succeda nulla. Fare educazione significa invece fare di tutto perché all’educando succeda qualcosa6”.
• Per far questo, è necessario dare parola ai padri perché raccontino le proprie storie, come loro vedono e interpretano le vicende della propria vita, della famiglia, dei figli, così pure i loro sogni, le aspirazioni, i progetti. Questo aprirà la strada alla possibilità di individuare un loro ruolo specifico entro i progetti che si vanno a realizzare. Un ruolo concreto, circoscritto, misurabile, strettamente connesso alla realizzazione di un’immagine di futuro, di un futuro migliore possibile. Perché i padri, per agire, hanno bisogno di un futuro verso cui dirigersi e dirigere i propri figli7. Hanno bisogno di una direzione verso cui portare se stessi e la propria famiglia, ma a loro modo.
• «A loro modo» significa in un modo diverso da come lo farebbero le madri e quindi è nostro compito contenere lo «strabordare» del materno e il ruolo delle madri nell’educazione. Per ottenere questo, è necessario rifiutare l’idea che nei nostri progetti educativi di un padre si possa fare anche a meno, mentre di una madre no. Ma, a volte, non basta una madre sufficientemente buona: ci vuole anche un padre, seppur mediocre! I padri insomma bisogna volerli, bisogna voler interagire con loro, bisogna scegliere il loro coinvolgimento, partendo dalla convinzione che i figli hanno bisogno di loro.
• È importante inoltre non dimenticarsi che la paternità, come la genitorialità più in generale, può essere appresa, arricchita, migliorata. Diventa quindi compito degli operatori avviare quei percorsi che possano aiutare un padre a togliersi una delle maschere che lo celano o arricchire il proprio bagaglio di competenze educative e imparare, assieme alla sua compagna, a integrarsi, a valorizzare la loro differenza e la loro complementarietà nell’esercizio della genitorialità.
• Infine, lavorare con i padri può presentare qualche difficoltà e quindi è indispensabile un lavoro d’équipe per sostenersi a vicenda nelle proprie paure, per aiutarsi nella decostruzione dei propri pregiudizi, per contenere le derive maschiliste sempre possibili.
Marco Tuggia
1Tuggia M. (2011), Padre dove vai?, Armando, Roma
2Ivi, pp.21 e seg.
3Petter G. (1972), Dall’infanzia all’adolescenza, Giunti- Barbera, Firenze, p. 49.
4Ivi, p. 60.
5Miller A. (1989), Il bambino inascoltato, Bollati Boringhieri, Torino.
6Salomone I. (1997, Il setting pedagogico, Nis, Roma.
7Tuggia M., op. cit., pp. 75 e ss.
Lascia un commento