E se li lasciassimo un po’ in pace?
di Valentina Re |
Due
settimane fa, quando il Servizio Minori e
Famiglia in cui lavoro ha sospeso le Adm, ho
provato un enorme senso di impotenza e frustrazione. La domanda era sempre la
stessa: “Come posso stare vicino stando così
lontana, come si fa a mantenere una relazione,
che abitualmente è quotidiana, a distanza?”.
I legami si affievoliscono, si diradano, non posso osservare, non posso intervenire, non posso “tenere sotto controllo”. Ho lasciato viaggiare la mia fantasia superando
resistenze e vergogna; ho fatto video per i
bambini in cui leggevo loro una storia sul coronavirus, ho cercato link da
mandare ai genitori in cui scovare le più svariate attività da fare in queste lunghe giornate di noia, ho inoltrato
foto, vocali, ho fatto così tante videochiamate che il telefono era
costantemente in carica, ho disegnato parecchi arcobaleni e ne ho ricevuti
altrettanti.
“Devo dimostrargli che ci sono, che non li ho
abbandonati, che possono ugualmente contare su di me!”.
Era questo l’obiettivo che mi davo: non smettere di fare, di prestare
attenzione, di ascoltare le mie percezioni dietro un whatsapp con un emoticon
triste o sorridente e da lì partire per costruire un intervento educativo
mirato.
Un sacco di tempo a progettare, a pensare, a confrontarmi con i colleghi che,
come me, si trovano spiazzati davanti a una
situazione sconosciuta che rimette in gioco tutti i punti fermi del nostro
lavoro. Sostenere, condurre, indirizzare,
prendersi cura, aiutare e a volte anche sostituire.
È davvero complesso ascoltare una mamma stanca, una
nonna arrabbiata o un papà triste che in videochiamata scoppia a piangere alla
vista dei loro bambini che non abbraccia da settimane. Sentire il peso di dover
gestire la situazione, di legittimare tanta sofferenza a un adulto, ma allo
stesso tempo di proteggere e preservare un bambino da un’emozione così
dirompente. Il tutto senza poterli guardare, se non attraverso una connessione
ballerina, senza entrare nei loro sguardi o senza cogliere i movimenti del loro
corpo, senza essere lì insomma.
Cerco di tirare fuori tutta la mia empatia e, a fine giornata, mi sento
svuotata.
Le telefonate diventano troppe, senza orario, senza misura, mi sento
appesantita, ma lo devo fare, lo faccio per cercare di
rispondere al loro bisogno…
O al mio?!
Questa domanda inizia a farsi sempre più spazio e mi costringe a fermarmi e a
fare dei pensieri che vadano nella direzione, non tanto di trovare una
risposta, quanto di capirne l’origine. L’origine stessa in cui, per natura,
ogni vuoto va riempito, perché non sappiamo stare nel niente, nella noia e
nell’incertezza.
Da qui parte la messa in discussione del mio nuovo
ruolo.
E se li lasciassi un po’ stare?
E se provassi a dare loro un po’ di fiducia, se li lasciassi generare liberi
dalla sensazione di dover, a fine giornata, rendicontare all’educatrice come
hanno trascorso il tempo con i loro figli?
In fin dei conti il lavoro dell’educatore è quello di
accompagnare le persone verso l’autonomia,
mostrando loro degli strumenti che riescano a utilizzare nell’attimo opportuno,
che si arrivi al momento in cui camminano da soli, senza più avere bisogno di
noi, perché se così non fosse non avremmo costruito qualcosa di solido che può
perdurare nel tempo, non avremmo permesso loro di imparare nulla se non a
creare una relazione di dipendenza da noi.
È chiaro che con questo non intendo abbandonarli al
loro destino, né sentirmi esonerata dalla
responsabilità di star loro vicino. Significa però immettere un cambiamento
nello sguardo, nell’oggetto di lavoro, nell’intenzionalità della nostra azione
educativa.
Esserci non vuol dire controllare, stare non significa
assillare.
Un po’ come quando un bambino inizia a camminare: lo sorreggiamo con entrambe
le mani, poi con una lasciamo la presa e infine molliamo anche l’altra. Loro
traballano, si muovono goffamente e spesso perdono l’equilibrio. Ci guardano
con gli occhi pieni di lacrime e allungano le braccia verso di noi per essere
presi in braccio. E lo facciamo certo, li consoliamo e li incoraggiamo a
riprovarci perché l’obiettivo è che riescano a stare in piedi da soli; possiamo
consigliare loro di appoggiarsi al divano, li mettiamo vicino a una sedia o su
un tappeto morbido perché possano reggersi e non farsi troppo male quando
cadranno. Perché sì, cadranno, è il naturale e fisiologico percorso di
apprendimento.
Ed è proprio questo che intendo: per loro sarà dura, lo è per tutti noi, lo è
per ogni genitore che deve fare smart working, lo è per un anziano solo, lo è
per un adolescente, lo è per un bambino, lo è per noi operatori. Lo è per
intere famiglie.
Provo quindi ad andare oltre il classico agito di
supporto immediato che si attiva davanti a ciò che riconosciamo come emergenza
e mi domando se questa situazione non ci
stia dando l’opportunità di mettere noi stessi al centro della trasformazione. Se una delle chiavi non sia quella di riempire ma di
provare un po’ a svuotare.
Forse oggi non è tempo di dare, ma è il tempo di prendere, di raccogliere, di
commettere errori, di dire “non vi preoccupate, potete scivolare” e nel
frattempo mostrare la nostra mano tesa, il nostro sguardo accogliente e non
giudicante, è tempo di far sentire la nostra voce che
incoraggia senza riempirli di cose da fare, perché la verità è che neanche noi
sappiamo esattamente cosa fare,
perché anche noi stiamo imparando a sbagliare a trasformarci e ci sentiamo, ora
più che mai, vulnerabili.
Questo è, se possibile, ancora più complesso, perché il non controllo del
presente ci mette inevitabilmente davanti al dover far i conti con la
riformulazione di un futuro che appare pericolosamente incerto. Quando tutto questo sarà finito torneremo nelle loro
case e se con alcuni potremo constatare che la distanza non ha fratturato alcun
legame, con altri invece dovremo ricominciare da capo a intrecciare le relazioni, a raccogliere i
cocci dell’isolamento forzato, di cosa ha scaturito e di dove ci ha portati.
Avremo a che fare con adolescenti che per mesi si sono chiusi nelle loro stanze
avendo come unici interlocutori il computer e nel migliore dei casi libri e
musica. Dovremo interfacciarci con genitori che potrebbero dirci “ce l’ho fatta
fino adesso senza di te, posso farcela ancora”. Forse sarà necessario fare i
conti con dei lutti e delle mancanze, con il rumore che è diventato silenzio e
che, seppur con lentezza, tornerà a farsi rumore, più intenso di prima.
Sarà allora il tempo del re-inventarsi, del
ri-costruire e ripartire, consapevoli che davanti a noi potrebbero non esserci
le stesse persone che abbiamo incontrato per l’ultima volta mesi fa.
Usiamo questo tempo per fargli sperimentare e per
sperimentare noi stessi un tipo di educazione insolita, manteniamo un filo ma permettiamoci anche di
allentare la presa, perché fare il nostro lavoro da vicino è una competenza con
cui abbiamo confidenza, ma farlo da lontano, lasciarli andare per poi essere capaci di accoglierli
nuovamente accettando la loro trasformazione, ci spaventa un po’ di più. Lasciamoli disegnare su una nuova tela, permettiamo loro di scoprire le risorse che hanno e
lasciamoci stupire alla vista di un dipinto che ha cambiato forma e colore, che ci condurrà a una rinascita in un progetto
che diventa una scommessa per noi stessi e per le persone che, con le loro
fragilità, ci permettono di rendere il lavoro educativo una nuova, costante,
scoperta.
Con l’intenzione che questo mio piccolo contributo, un po’ provocatorio, possa
diventare una occasione di scambio con chiunque si senta parte di un progetto
educativo, non mi resta che augurarci un buon “nuovo” lavoro cari colleghi, che
siate educatori, psicologi, assistenti sociali, insegnanti o “semplicemente”
genitori. Nella disperata speranza che ci accomuna che “andrà tutto bene” vi
stringo in un lontano, ma caloroso abbraccio.
Valentina Re è educatrice del Servizio Minori e Famiglia del Comune di Pieve Emanuele (Mi), per la cooperativa sociale Libera Compagnia di Arti e Mestieri Sociali di San Giuliano Milanese